VITTIME DI REATI VIOLENTI INTENZIONALI E INDENNIZZI: LA CORTE DI CASSAZIONE CONDANNA LO STATO ITALIANO

  1. La Cassazione sancisce la responsabilità dello Stato per la tardiva ed incorretta attuazione della direttiva 2004/80/CE.

 Con la sentenza Cass. civ., Sez. III, 24 novembre 2020, n. 26757 la Suprema corte ha finalmente posto la parola fine alla “causa pilota” intentata nel 2009 da una giovane vittima di stupro contro lo Stato italiano, accusato dapprima di non avere dato attuazione alla direttiva 2004/80/CE e poi, dal 2016 in avanti, di averla implementata con gravi lacune.

 

  1. I fatti di causa.

La sentenza della Cassazione è intervenuta nella “causa pilota” intentata a Torino contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri da una giovane ragazza per una lunga interminabile notte rimasta vittima, nel 2005, a Torino, di sequestro di persona, violenze sessuali e percosse. La ragazza non era riuscita ad essere risarcita dai due violentatori, pur condannati in sede penale, ma senza risorse economiche e resisi irreperibili nel corso del procedimento penale.

Oggetto di questa causa, intentata dalla giovane vittima assistita dagli Avvocati Marco Bona e Francesco Bracciani nel febbraio 2009, era la direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004. All’art. 12, para. 2, questa statuisce per tutti gli Stati UE il seguente obbligo: «Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime».

La tesi della ragazza era che in forza di tale direttiva lo Stato italiano, dal 1° luglio 2005, avrebbe dovuto garantire alle vittime di reati intenzionali e violenti (omicidi dolosi, lesioni dolose, violenze sessuali) commessi sul territorio italiano un risarcimento/indennizzo equo e adeguato nei casi di autore del reato rimasto sconosciuto o sottrattosi alla giustizia o privo di risorse economiche per risarcire la vittima o, nel caso di morte, i famigliari.

La tesi del Governo, invece, era che la direttiva non concernesse le vittime di violenze sessuali e, comunque, che riguardasse solo le vittime straniere in transito in Italia, ma non già le vittime residenti in Italia e qui lese.

Il Tribunale di Torino (sentenza 2010) aveva riconosciuto l’inadempimento della Presidenza del Consiglio per la mancata attuazione della direttiva. Così poi anche la Corte d’Appello di Torino (sentenza 2012), confermando la pronuncia del Tribunale e condannando la Presidenza: «è certo che l’Italia non ha stabilito un sistema di indennizzo per le vittime di violenza sessuale e pertanto è inadempiente». Alla ragazza furono riconosciuti Euro 50.000,00 di risarcimento.

Contro questa sentenza il Governo italiano aveva poi fatto ricorso in Cassazione nel 2012, la quale nel gennaio 2019, dietro insistente richiesta dei legali della vittima (gli Avvocati Marco Bona, Umberto Oliva e Francesco Bracciani insieme al Prof. Avv. Vincenzo Zeno-Zencovich), finalmente rimetteva in via pregiudiziale la causa avanti la Corte di giustizia dell’Unione Europea per l’interpretazione della direttiva.

L’udienza di discussione avanti la Grande Sezione della Corte di Giustizia si svolgeva il 2 marzo 2020. Per la vittima discuteva il caso lAvv. Marco Bona.

 

  1. La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea nella causa C‑129/19.

 


Gli Avvocati Oliva, Bona e Bracciani in Lussemburgo alla Corte di Giustizia per l’udienza del 2 marzo 2020

 

La storica sentenza Presidenza del Consiglio dei Ministri contro BV, Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 16 luglio 2020, causa C‑129/19 sanciva innanzitutto i seguenti principi, così già dando ragione alle tesi sostenute dalla vittima:

  • il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato, riconosciuto dal diritto dell’Unione Europea (la direttiva 2004/80/CE) vale non solo per le vittime di reati intenzionali violenti commessi nel territorio di uno Stato membro che si trovano in una situazione transfrontaliera (le c.d. “vittime in transito”), ma anche per le vittime che risiedono abitualmente nel territorio di tale Stato membro (le c.d. “vittime residenti”);
  • le vittime e/o i loro famigliari hanno diritto al risarcimento dei danni causati dalla violazione, da parte di uno Stato membro, del suo obbligo di indennizzo ai sensi della direttiva 2004/80/CE, ciò indipendentemente dalla questione se la vittima si trovasse o meno in una situazione transfrontaliera nel momento in cui è stata vittima di un reato intenzionale violento (pertanto, una ragazza italiana violentata o lesa in Italia ha diritto ad agire nei confronti dello Stato italiano per i ritardi e gli inadempimenti nell’attuazione della direttiva del 2004).

A supporto dell’interpretazione della direttiva nel senso di tutelare innanzitutto le “vittime residenti” la Corte di giustizia adduceva sia il dato testuale della direttiva che i ‘considerando’ 3, 6, 7 e 10. Per la Corte non si può dubitare di quanto segue: «l’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 impone a ogni Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo che ricomprenda tutte le vittime di reati intenzionali violenti commessi nei loro territori e non soltanto le vittime che si trovano in una situazione transfrontaliera» (§ 52 della sentenza).

A questa medesima considerazione era già pervenuto l’Avvocato Generale Michal Bobek nelle sue conclusioni del 14 maggio 2020, per l’appunto sostenendo, in linea con le tesi della vittima torinese, la tesi per cui la direttiva impone agli Stati membri di istituire sistemi di indennizzo nazionali per qualsiasi vittima di reato intenzionale violento commesso nei rispettivi territori, «indipendentemente dal luogo di residenza della vittima». A supporto di questa soluzione l’Avvocato Generale aveva addotto, fra l’altro, che «la legislazione deve essere interpretata dal punto di vista di un normale destinatario, che verosimilmente non inizia a ricercare diversi documenti (non sempre accessibili al pubblico) relativi alla storia legislativa di uno strumento, al fine di scoprire se ciò che è scritto nel testo rispecchi la volontà soggettiva del legislatore storico». Tuttavia, mentre l’Avvocato Generale aveva rilevato anche elementi a favore di un’interpretazione contraria (in particolare aveva attribuito alle tesi della vittima una vittoria dinanzi ad una situazione di “spareggio”), nella sentenza del 16 luglio la Corte di Giustizia non aveva esitazioni di sorta nell’affermare l’estensione della direttiva alle “vittime residenti”, il che, come logico, conferma la sicura responsabilità dello Stato italiano nel ritardo e nell’inadempimento della direttiva (oltre che nella difesa della sua testi discriminatoria nelle cause intentate nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri).

La sentenza della Corte di Giustizia, inoltre, risultava altresì fondamentale – anche nella prospettiva dell’armonizzazione degli indennizzi in materia a livello dell’Unione – sul piano della nozione di indennizzo “equo e adeguato” e, dunque, dei limiti posti al legislatore nazionale, ciò non solo con riferimento alle vittime di violenze sessuali, ma anche in relazione ai famigliari dell’ucciso ed alle vittime di lesioni personali.

Questo secondo punto della sentenza risulta importante in quanto, per scongiurare cause di questo tipo e condanne da parte della Corte di giustizia, il legislatore italiano, pur con estremo ritardo e soltanto nel 2017, era intervenuto a prevedere i seguenti indennizzi: – per il reato di omicidio l’«importo fisso» (da dividersi fra tutti i famigliari legittimati attivi) di Euro 7.200, incrementato a Euro 8.200 nel caso di omicidio commesso dal coniuge o da persona legata, nel passato o al momento del fatto, da relazione affettiva alla persona offesa; – per il reato di violenza sessuale l’«importo fisso» di Euro 4.800; per le lesioni personali: soltanto un indennizzo a titolo di rifusione delle spese mediche ed assistenziali «fino a un massimo di euro 3.000».

A fronte di tali importi, nella “causa pilota” torinese, avanti la Cassazione, la Presidenza del Consiglio aveva sostenuto che tali interventi legislativi fossero tali da soddisfare le pretese delle vittime e della ragazza torinese. Secondo i legali della ragazza, invece, con tali leggi l’Italia aveva previsto per le vittime indennizzi assolutamente irrisori e, quindi, non aveva in nessun modo rimediato al suo inadempimento.

Inoltre, la strada per ottenere tali elemosine di Stato si era rilevata sin da subito irta di ostacoli assurdi e vessatori: è molto complesso per le vittime accedere a tale tutela.

Anche la Cassazione, nell’ordinanza del 31 gennaio 2019 di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, aveva affermato che questi indennizzi si collocavano nell’«area dell’irrisorio» e l’importo di euro 4.800 per le vittime di violenze sessuale costituiva una somma «palesemente non equa».

Soltanto nel novembre 2019 il Governo rivedeva tale importo, portandolo all’importo fisso di euro 25.000.

 

Sul punto del quantum degli indennizzi l’Avvocato Generale Michal Bobek, pur con un approccio dallo stesso definito “minimalista”, aveva sostenuto che l’indennizzo di una vittima è equo ed adeguato”, ai sensi della direttiva, quando fornisce un contributo significativo alla riparazione del danno subito dalla vittima. In particolare, per l’Avvocato generale l’importo dell’indennizzo concesso non può essere talmente esiguo da divenire puramente simbolico, o da rendere la sua utilità per la vittima, in pratica, trascurabile o marginale.

 

La sentenza del 16 luglio 2020 si poneva sulla stessa scia, affermando il principio per cui un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come «equo ed adeguato» (come richiesto dalla direttiva) qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito; in altri termini,  non solo i danni materiali, ma anche quelli non patrimoniali (biologici, morali) devono essere riparati in modo soddisfacente.

 

È da notarsi innanzitutto l’espresso riferimento da parte della Corte di giustizia anche al danno immateriale ed al danno morale, per niente scontato, atteso che la direttiva non li menzionava, il che costituisce già di per sé un’importante novità.

Per quanto concerne la libertà d’azione dei legislatori nazionali, così si legge nella sentenza: «uno Stato membro eccederebbe il margine di discrezionalità accordato dall’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 se le sue disposizioni nazionali prevedessero un indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime» (§ 63).

Nello specifico, per la Corte «l’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 non può essere interpretato nel senso che osta a un indennizzo forfettario di tali vittime, in quanto la somma forfettaria assegnata a ciascuna vittima può variare a seconda della natura delle violenze subite. Tuttavia, lo Stato membro che opti per un siffatto regime di indennizzo deve provvedere affinché la misura degli indennizzi sia sufficientemente dettagliata, così da evitare che l’indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di violenza possa rivelarsi, alla luce delle circostanze di un caso particolare, manifestamente insufficiente» (§§ 65 e 66).

Ai § 67 e 68 la Corte aggiungeva quanto segue: «Per quanto riguarda, in particolare, la violenza sessuale, occorre rilevare che si tratta di un reato, tra quelli intenzionali violenti, che può provocare le conseguenze più gravi. Pertanto, fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio, un importo forfettario di EUR 4.800 per l’indennizzo della vittima di violenza sessuale non sembra corrispondere, prima facie, a un «indennizzo equo ed adeguato», ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80» (si noti come non sia affatto abituale per la Corte di Giustizia esprimersi direttamente sulla congruità delle somme monetarie accordate dai sistemi nazionali; in questo caso, invero, ha fatto un’importante eccezione).

Ciò illustrato la parte della sentenza sul quantum degli indennizzi mette in seria crisi sia gli importi previsti dal legislatore italiano del 2017, sia quelli, pur incrementati dal nostro Governo nel 2020.

In particolare, a quest’ultimo riguardo la pronuncia della Corte di Giustizia è importantissima perché permette anche alle vittime future di contrastare, per violazione del diritto dell’Unione Europea, gli indennizzi previsti dal decreto ministeriale del 22 novembre 2019 («Determinazione degli importi dell’indennizzo alle vittime dei reati intenzionali violenti»), entrato in vigore il 23 gennaio 2020, e, dunque, di affermare una “responsabilità Francovich” della Presidenza del Consiglio dei Ministri per i seguenti motivi:

  • delitto di omicidio: importo fisso di euro 50.000 (profili di censura anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia: somma da dividersi tra tutti i congiunti del defunto indipendentemente dal loro numero e dall’entità del danno morale e da perdita del rapporto prentale così come da eventuali danni psichici o perdite patrimoniali; dunque, l’importo è palesemente insufficiente, ciò anche a confronto con l’indennizzo di Euro 200.000,00 previsto per le vittime di terrorismo, mafia, usura, vittime del dovere, limite massimo a sua volta già irrisorio ed in nessun modo “personalizzabile”);
  • delitto di omicidio commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (femminicidi compresi): importo fisso di euro 60.000 (esclusivamente in favore dei figli della vittima) (profili di censura anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia: cfr. il punto precedente);
  • delitto di violenza sessuale: importo fisso di euro 25.000 (profili di censura anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia: tale importo non considera le circostanze concrete del reato, né le conseguenti ripercussioni biologico-psichiche od i pregiudizi sulle attività lavorative; lo stesso importo viene riconosciuto per stupri di gruppo, stupri individuali, violenze sessuali reiterate, violenze sessuali diverse dalla congiunzione carnale; peraltro, l’indennizzo è di gran lunga inferiore agli indennizzi stabiliti dai tribunali, ivi compresa la pronuncia resa dalla sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva liquidato alla ragazza 50.000 euro; deve pure notarsi come in base alla Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne dell’11 maggio 2011 – ratificata dall’Italia legge del 27 giugno 2013, n. 77 ed entrata in vigore in data 1° agosto 2014 – base all’art. 31, comma 2, di questa deve essere garantito non già un indennizzo, bensì un « adeguato risarcimento »);
  • delitto di lesioni personali gravissime e delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso: importo fisso di euro 25.000 (profili di censura anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia: tale importo fissa non considera le differenze a livello di entità di lesioni gravissime oppure la diversa età delle vittime; l’importo è di gran lunga inferiore rispetto a quello garantito alle vittime di terrorismo, mafia, usura, vittime del dovere, che prevede un tetto massimo di 200.000,00 euro con importi variabili a seconda della tipologia delle lesioni personali e dell’entità delle sofferenze morali; last but not least, il limite alle sole lesioni gravissime non è in linea con la direttiva;);
  • per tutti i delitti, di cui sopra, l’importo fisso dell’indennizzo è incrementato di una somma equivalente alle spese mediche e assistenziali documentate, fino a un massimo di euro 10.000 (profili di censura anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia: somma irrisoria considerandosi che si tratta anche di lesioni personali gravissime);
  • per lesioni personali minori e lesioni personali gravi si contempla solo un indennizzo per la rifusione delle spese mediche e assistenziali documentate, fino a un massimo di euro 15.000 (profili di censura anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia: la Corte di Giustizia, invece, ha fatto riferimento anche ai “danni non materiali”, ossia ai danni non patrimoniali/morali).

Peraltro, non è certo che in futuro le vittime possano accedere agli indennizzi da ultimo rivisti dato che tali importi sono liquidati nel limite delle risorse disponibili a legislazione vigente ed il decreto del 2020 afferma che dall’incremento degli indennizzi non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (artt. 2 e 3 dm 22 novembre 2019, pubblicato il 23 gennaio 2020).

 

  1. La pronuncia della Cassazione: l’epilogo della “causa pilota”.

 Dopo la sentenza della Corte di Giustizia, la causa è tornata alla Suprema corte, che, dopo l’udienza di discussione del 17 novembre cui ha partecipato per la vittima l’Avv. Marco Bona, ha reso pochissimo tempo dopo la pronuncia Cass. civ., Sez. III, 24 novembre 2020, n. 26757, la prima in assoluto resa dai giudici di legittimità in ordine all’interpretazione del precetto di cui all’art. 12, para. 2, della direttiva 2004/80.

Con questa sentenza la Cassazione ha chiuso il cerchio sulle giuste pretese della giovane torinese e sulle strenue quanto infondate difese del Governo, in questa causa dichiarato ad ogni livello giudiziario (Tribunale, Corte di Appello, Corte di Giustizia UE, Corte di Cassazione) per lungo tempo inadempiente ai suoi doveri di tutela delle vittime di reati violenti, ivi comprese le vittime di reati sessuali, che non hanno potuto ottenere dai loro carnefici alcun risarcimento.

 

Infatti, la sentenza del 24 novembre 2020 conferma integralmente la precedente decisione della Corte di Appello di Torino e condanna la PCDM a corrispondere alla vittima, in aggiunta a quanto nel frattempo erogato dallo Stato, l’ulteriore somma di €. 30.000,00 ritenendola dovuta anche «in ragione del tempo trascorso in attesa della trasposizione della direttiva 2004/80/CE».

 

In particolare, la Suprema corte, sul piano dell’an debeatur, ha confermato la sussistenza della “responsabilità Francovich” dell’Italia con riferimento alla direttiva 2004/80, responsabilità già delineata dalla Corte di Giustizia. Più nello specifico, i giudici di legittimità hanno ravvisato il carattere grave e manifesto dell’inadempimento italiano nella stessa chiarezza del precetto, di cui all’art. 12, para. 2, della direttiva, sancita per l’appunto già dalla Corte di Giustizia: «la violazione dell’art. 12, par. 2, citato, per un verso, è stata accertata dalla stessa CGUE (sentenza dell’11 ottobre 2016, in C-601/14) con declaratoria di responsabilità dell’Italia di esser venuta meno all’obbligo di dotarsi di un sistema generalizzato delle vittime di “tutti” i reati intenzionali violenti. Per altro verso, la portata estensiva di detta norma, applicabile anche nei confronti delle vittime residenti nello Stato membro in cui il reato è stato commesso, è stata dalla CGUE medesima (sentenza del 16 luglio 29020, in C-129/199) affermata (nonostante lo stesso “smarrimento” ermeneutico e, quindi, i dubbi sulla chiarezza della norma denunciati dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni – cfr. p.p. 100, 129 e 130 -, dai quali la stessa sentenza, del resto, prescinde del tutto) in forza di una interpretazione piana e diretta (senza altre mediazioni volte dissipare incertezze interpretative, non altrimenti palesate) della sola direttiva 2004/80/CE, di per sè ritenuta, ab origine, fonte chiaramente orientata a conferire anche alle vittime non transfrontaliere la tutela indennitaria da essa contemplata. E lo stesso Giudice Europeo, oltre a non far cenno (quanto alla questione qui in esame) a particolari profili di ampia discrezionalità in capo allo Stato membro tenuto all’attuazione della direttiva medesima, ha espressamente escluso che sussistesse un diritto vivente unionale contrastante o solo anche disarmonico con la soluzione interpretativa raggiunta, come detto, già ritenuta propria delle virtualità applicative che la disposizione interpretata possedeva sin dall’inizio. Dunque, non coglie nel segno la censura di parte ricorrente che – asserendo anche esservi stato, con la sentenza del luglio 2020, un “overruling sostanziale”, determinativo di legittimo affidamento in capo allo Stato italiano su una diversa portata del diritto derivato dell’Unione – contesta potersi configurare nel caso all’esame una violazione sufficientemente qualificata dell’art. 12, par. 2, della direttiva».

In breve, attesa la chiarezza attribuita dalla Corte di Giustizia alla direttiva circa l’effettiva estensione dell’obbligo, di cui all’art. 12, para. 2, anche a favore delle “vittime residenti”, la Suprema corte ha concluso per il rigetto integrale della tesi della Presidenza del Consiglio secondo cui l’esclusione, per anni, di tali vittime dal novero dei beneficiari sarebbe stato un “errore scusabile”, dunque inidoneo a configurare qualsivoglia responsabilità.

Al riguardo, in occasione dell’udienza di discussione del 17 novembre, l’Avv. Bona aveva evidenziato quanto segue: «il livello di chiarezza del diritto eurounitario NON può stabilirsi in rapporto alle letture condotte da questa o quella dottrina o giurisprudenza interne, ma alla luce dell’interpretazione di tale diritto svolta dalla Corte di Giustizia: ciò che conta in questa controversia è che la Corte di Giustizia ha ritenuto CHIARA la disposizione (ogni altra lettura si porrebbe in contrasto con tale lettura)».

Questa conclusione in ordine alla incontestabile sussistenza della “violazione sufficientemente qualificata” del diritto eurounitario (ossia la seconda condizione per l’affermazione della “responsabilità Francovich” insieme, quale primo requisito, all’attribuzione al privato di un vero e proprio diritto da parte della norma eurounitaria e, quale terza condizione, alla ricorrenza di un nesso di causa tra violazione e danno lamentato dal cittadino), peraltro, rileverà anche nel giudizio di rinvio del procedimento deciso dai giudici di legittimità con la pronuncia Cass. civ. Sez. III, 25 novembre 2020, n. 26758, confermativa della seguente portata applicativa dell’art. 12, par. 2, della direttiva: questa disposizione «non solo obbliga gli Stati membri a dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio, ma […] consente anche ai soggetti residenti nello Stato membro, così obbligato, di poter usufruire dell’indennizzo, essendo, quindi, anch’essi titolari del diritto conferito, nella specie, dal diritto derivato dell’Unione».

Sul versante del quantum debeatur, distinguendo tra diritto all’indennizzo e «diritto al risarcimento del danno per l’inadempimento statuale all’obbligo di trasposizione tempestiva del diritto dell’Unione», nonché ravvisando nel caso concreto il «maggior danno subito dall’avente diritto per non aver potuto beneficiare, a suo tempo, dei vantaggi garantiti dalla norma attributiva del vantaggio» nella «perdita (morale e materiale) patita dall’attrice che si è potuta alimentare pure in ragione del tempo trascorso in attesa della trasposizione della direttiva 2004/80/CE, non ancora effettuata, del resto, al momento della decisione di secondo grado», la Cassazione ha confermato la congruità del risarcimento di Euro 50.000,00 a titolo di danno da inadempimento della direttiva, come calcolato dal Giudice di secondo grado. Semplicemente ha poi dedotto da tale importo l’indennizzo di Euro 25.000,00 infine percepito dalla vittima nel luglio del 2020. A quest’ultimo proposito la Suprema corte ha evocato il principio in base al quale nelle ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria, vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa; muovendo da tale principio, pertanto, la Cassazione ha poi ritenuto di ricorrere all’istituto della compensatio lucri cum damno, così dall’importo accordato dalla Corte di Appello di Torino quanto corrisposto alla vittima conformemente al D.M. 22 novembre 2019. Invero, la Corte avrebbe potuto anche evitare di fare leva sull’istituto della compensatio, potendo direttamente dedurre il pagamento parziale intervenuto in corso di causa.

Sta di fatto che per la vittima della causa torinese si è chiuso finalmente il lungo percorso giudiziario inflittole dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, sotto questo profilo resasi consapevolmente responsabile di una vera e propria forma di “vittimizzazione secondaria istituzionale”.

La sentenza è di estremo interesse anche per un’altra ragione: infatti, la Cassazione ha pure preso posizione sulla questione, sempre sollevata dalla Presidenza del Consiglio nella causa torinese, del requisito del previo infruttuoso esperimento di procedura esecutiva avverso il reo.

Nello specifico, respingendo la doglianza mossa dalla ricorrente Presidenza del Consiglio avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva ritenuto di poter prescindere dal requisito del previo esperimento di procedure esecutive (doglianza retta sulla tesi per cui la direttiva 2004/80/CE imporrebbe, come presupposto oggettivo, l’obiettiva impossibilità della vittima del reato intenzionale violento di conseguire il risarcimento dai diretti responsabili), la Suprema corte si è così espressa: la direttiva, sia a livello di sua lettera (in primis il ‘considerando’ 10) che di sua ratio – «come anche evidenziato nella sentenza della CGUE del 16 luglio 2020 (p. 51)» – «mette in rilievo la necessità di ovviare, attraverso il sistema indennitario da essa contemplato, alle oggettive “difficoltà” – e non la “impossibilità” postulata dal ricorrente – che la vittima di reato intenzionale violento può incontrare nel conseguire il risarcimento del danno patito, in conseguenza di fattori diversi attinenti alla persona del reo (privo di risorse economiche sufficienti, non individuabile ovvero non perseguibile)».

In ragione di questa esatta interpretazione della Direttiva i giudici di legittimità hanno ritenuto «adeguata e non illogica la motivazione del giudice di appello che – proprio in armonia con il principio innanzi enunciato, ancorando essenzialmente il proprio convincimento alla sussistenza di una condizione di non superabile difficoltà di carattere oggettivo, da potersi ricondurre, come esemplificazione fattuale, nel più ampio concetto di non perseguibilità del reo – ha posto in evidenza come l’attrice, pur essendosi costituita parte civile nel giudizio penale, non avrebbe potuto ottenere dagli autori dei reati commessi in suo danno “un qualsiasi anche parziale risarcimento”, essendosi costoro, segnatamente, resisi “latitanti nel giudizio di primo grado e tali (essendo) rimasti nel giudizio di appello”, tanto da rendere inutile l’esperimento di una causa civile al fine di conseguire, dagli stessi, il risarcimento del danno».

Pertanto, per la Cassazione è evidente come la Direttiva sia da interpretarsi nel senso di ostare alla richiesta, ai fini della concessione dell’indennizzo, di una prova, da parte della vittima, dell’impossibilità obiettiva di conseguire il risarcimento da parte del reo, tanto meno se tale prova viene ravvisata nell’esperimento infruttuoso della procedura esecutiva.

Da osservarsi come la sentenza in disamina preso posizione anche relazione all’art. 12, comma 1, lett. b), della legge n. 122/2016, rilevando quanto segue: «quanto […] evidenziato in sede di interpretazione della direttiva 2004/80/CE potrebbe orientare, alla luce del canone dell’interpretazione adeguatrice della norma nazionale alla norma del diritto dell’Unione, anche la lettura della menzionata disciplina di accesso alla prestazione indennitaria de qua, la quale, se si misura direttamente con il profilo della insufficienza di risorse economiche in capo al reo e con quella della mancata individuazione del reo, tali da non poter soddisfare l’obbligazione risarcitoria in favore della vittima del reato, non esclude, di per sè, il rilievo, in forza di una lettura estensiva e secondo la ratio della norma sovranazionale, ulteriori oggettivi e seri ostacoli che possono presentarsi nel conseguimento da parte della stessa vittima del risarcimento ad essa spettante. E del resto in tal senso la norma interna è stata interpretata dallo stesso Stato italiano in quanto soggetto che ha in concreto provveduto all’erogazione dell’indennizzo in favore dell’attrice».

Molto chiaramente, come anche si evince dai passaggi successivi a quello ora riportato, in ragione dell’“interpretazione adeguatrice” della norma interna alla norma eurounitaria la Cassazione ha ritenuto che il requisito del previo esperimento infruttuoso della procedura esecutiva possa e debba venire derogato dinanzi ad oggettivi e seri ostacoli che possono frapporsi all’ottenimento del risarcimento da parte del reo, ossia, come pure rilevato nella stessa pronuncia, dinanzi al «convincimento alla sussistenza di una condizione di non superabile difficoltà di carattere oggettivo» tale da far ritenere, ad esempio, «inutile l’esperimento di una causa civile al fine di conseguire, dagli stessi, il risarcimento del danno».

L’unica nota dolente della pronuncia n. 26757/2020 (così come anche nella successiva n. 26758/2020), risiede nella decisione della Cassazione di scongiurare qualsiasi considerazione sulla conformità dell’indennizzo infine conseguito dalla vittima (Euro 25.000) alla nozione di indennizzo “equo ed adeguato” di cui all’art. 12, para. 2, della direttiva, pur avendo l’occasione per entrare nel merito di tale questione a fronte dei rilievi operati dalla vittima anche sul piano della legittimità costituzionale del nuovo importo indennitario. Tra l’altro la vittima, nel rilevare il conseguimento di tale indennizzo, aveva evidenziato in memoria ex 378 c.p.c. così come in sede di discussione, di non opporsi al defalco dell’importo conseguito, tuttavia previa valutazione della sua conformità al diritto eurounitario (pertanto, con eventuale ridimensionamento del defalco).

Nonostante i rilievi della vittima, quindi, la questione della congruità ed equità dell’importo di Euro 25.000 per le vittime di violenza sessuale rimane aperta, non potendosi cogliere nell’intervento della Suprema corte indicazioni, anche solo implicite, in qualche modo interpretabili nel senso di un avvallo dei criteri recati dal D.M. 22 novembre 2019, indubbiamente critici come posto in luce innanzi.

In particolare, la Suprema corte, a sostegno dell’irrilevanza di «ulteriori valutazioni circa l’effettiva rispondenza ai criteri di equità ed adeguatezza della misura dell’indennizzo ex lege corrisposto da ultimo all’attrice nella misura fissata con D.M. 23 novembre 2019», ha addotto un motivo meramente processuale, ossia «il perimetro e i contenuti dell’impugnazione (della sola P.C.M.)», pertanto considerando prive di rilievo anche «le rinnovate sollecitazioni della controricorrente […] ad investire il Giudice delle leggi dei dubbi di costituzionalità della fonte normativa di rango primario da cui esso indirettamente promana».

La questione della (in)congruità degli indennizzi attualmente previsti dal legislatore italiano, dunque, rimane in attesa di soluzioni.

 

  1. Un sistema ancora da affinare nella prospettiva di una tutela rafforzata delle vittime di reati violenti intenzionali.

La “causa pilota” torinese, finalmente giunta al suo termine in Cassazione, ed il sacrificio della vittima hanno senz’altro contribuito a condurre lo Stato italiano all’apprestamento della tutela indennitaria nazionale a favore delle vittime di reati violenti intenzionali ed a innalzare, pur in misura modesta e secondo una “scala indennitaria” inadeguata ed iniqua, i miseri indennizzi predisposti inizialmente.

Nondimeno, senza dubbio il sistema indennitario nazionale per le vittime di reati violenti intenzionali necessita di ulteriori affinamenti tanto sul piano sostanziale degli indennizzi che su quello procedurale dei requisiti per l’accesso a tale tutela.

Altre battaglie ancora attendono, purtroppo, le vittime di reati violenti intenzionali, ciò, peraltro, non solo in relazione alla tutela indennitaria, di cui alla direttiva 2004/80, ma anche sul piano dell’attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI. Ci si riferisce in particolare all’attuazione del precetto di cui all’art. 16 («Diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale»), para. 1, di quest’ultima direttiva che prevede il seguente obbligo per gli Stati membri: «Gli Stati membri garantiscono alla vittima il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo, tranne qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un altro procedimento giudiziario».

 

 

 

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