Con la sentenza della Grande Sezione dell’11 ottobre 2016 nella causa C-601/14 la Repubblica Italiana è stata condanna dalla Corte di Giustizia UEper non avere adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio, venendo così meno all’obbligo sancito dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato. In particolare, la Corte di Giustizia ha sancito il principio per cui «l’articolo 12, paragrafo 2, di tale direttiva deve essere interpretato nel senso che esso mira a garantire al cittadino dell’Unione il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno Stato membro nel quale si trova, nell’ambito dell’esercizio del proprio diritto alla libera circolazione, imponendo a ciascuno Stato membro di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio». Peraltro, la Corte ha circoscritto la portata di alcune sue precedenti sentenze, rilevando come in realtà si fossero limitate «a precisare che il sistema di cooperazione istituito dalla direttiva 2004/80 riguarda unicamente l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere, senza tuttavia escludere che l’articolo 12, paragrafo 2, di tale direttiva imponga ad ogni Stato membro di adottare, al fine di garantire l’obiettivo da essa perseguito in siffatte situazioni, un sistema nazionale che garantisca l’indennizzo delle vittime di qualsiasi reato intenzionale violento sul proprio territorio». Dunque, la Corte ha accolto il ricorso promosso nel 2014 dalla Commissione Europea che sosteneva come l’Italia, non avendo creato un sistema generale d’indennizzo in grado di coprire tutte le tipologie di reati dolosi violenti (quali, per esempio, lo stupro, le aggressioni di natura sessuale, gli omicidi, le lesioni personali), fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell’Unione. L’Avv. Marco Bona, il quale nel 2002 partecipò ai lavori preparatori della direttiva in qualità di esperto ed invano segnalò al Presidente della Repubblica, al Parlamento ed al Governo l’assenza dell’Italia in tale fase, è stato tra i primi giuristi ad ipotizzare l’inadempimento italiano e, per conto di una ragazza torinese sequestrata e violentata per un’intera notte da due soggetti, ad avere instaurato, con successo, una causa civile contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri per vedere riconosciuta la responsabilità del Governo per la mancata attuazione della direttiva. In tale “causa pilota“, che pende ora in Cassazione e vede coinvolti anche l’Avv. Francesco Bracciani e l’Avv. Umberto Oliva, i magistrati torinesi diedero ragione alla ragazza, accordando un risarcimento di € 50.000,00 (Trib. Torino, Sez. IV, 26 maggio 2010, n. 3145, G.U. Dotta, e App. Torino, Sez. III, 23 gennaio 2012, n. 106, Pres. rel. Prat). Il Tribunale così delineò il quadro normativo italiano e la responsabilità dell’Italia: «nessuna norma di diritto interno riconosce … il diritto al risarcimento per reati intenzionali violenti diversi da quelli già regolamentati dallo Stato prima ancora dell’entrata in vigore della direttiva»; la direttiva «non pare attribuire agli stati nazionali di poter scegliere i singoli reati intenzionali violenti che possono formare oggetto di risarcimento, ma anzi impone loro di prevedere un meccanismo indennitario per tutti i reati intenzionali violenti e dunque anche per i reati di violenza sessuale – reati contro la persona di evidente natura violenta e intenzionale». In appello le tesi della vittima furono condivise anche dalla Procura torinese, intervenuta, nella persona del Sostituto Procuratore Fulvio Rossi, nel procedimento: «La tesi dell’appellante [la Presidenza del Consiglio], secondo cui lo Stato sarebbe libero di scegliere se e quando adottare le misure ritenute più congrue, appare priva di pregio giuridico […] e degrada l’obbligazione della Direttiva 2004/80/Ce a mero guscio vuoto». La Corte d’Appello piemontese confermò a sua volta l’inadempimento: «è certo che l’Italia non ha stabilito un sistema di indennizzo per le vittime di violenza sessuale e pertanto è inadempiente»; «in realtà, il decreto legislativo 6.11.2007 n. 204 … non ha dato completa attuazione alla Direttiva stessa, poiché si è limitato a regolare la procedura per l’assistenza alle vittime di reato […], ma non ha dato attuazione al disposto dell’art. 12, par. 2». In seguito anche i tribunali di Milano, Roma e Bologna, aderendo all’impostazione torinese, hanno condiviso tali letture della direttiva (Trib. Roma, Sez. II, 8 novembre 2013, n. 22327: efferato omicidio “comune”; Trib. Milano, Sez. I, 26 agosto 2014, n. 10441: lesioni personali e violenza sessuale; Trib. Bologna, Sez. III, 7 giugno 2016: femminicidio). In Cassazione la “causa pilota” torinese era stata sospesa nel 2015 in attesa della sentenza della Corte di Giustizia e, pertanto, ora riprenderà il suo cammino per approdare prossimamente – si spera – ad una sentenza. E’, infine, da sottolinearsi come, in vista della condanna da parte della Corte di Giustizia (prennunciata dall’opinione dell’Avvocato Generale), il Parlamento Italiano, su impulso del Governo Renzi, abbia approvato di tutta fretta la disciplina di cui agli artt. 11-16 della legge 7 luglio 2016 n. 122. Questa legge, però, come già si rilevava nella news MB.O del 3 agosto 2016 non costituisce un corretto adempimento della direttiva. Anzi, rappresenta, dopo tutti questi anni, l’ennesima beffadel legislatore italiano per le vittime italiane. Purtroppo, nonostante i proclami l’Italia rimane inadempiente.
11 Ottobre 2016